venerdì 7 ottobre 2011

La parola e il silenzio; e la poesia*


di Lucia Capo

Si potrebbe dire che le telecomunicazioni (sia che esse concernano il reale o l’immaginario) impoveriscano le comunicazioni concrete dell’uomo col suo ambiente. Il banale esempio della televisione che impoverisce le comunicazioni familiari è sintomatico. E non soltanto le comunicazioni con gli altri,  ma anche l’essere presenti a se stessi verrebbe a diluirsi, a forza di essere mobilitati sempre altrove. A dire il vero, l’angoscia affiora da tutti i pori della cultura di massa. In essa manca l’interrogazione interiore dell’uomo alle prese con se stesso,  con la vita, con la morte, con il mistero dell’universo. “ Manca la rivolta antropologica,  Edipo  e la Sfinge, non ci sono; manca il tuffo vertiginoso tra gli scogli dell’esistenza, poiché tutto vi si svolge orizzontalmente, alla superficie degli eventi, reali e immaginari”[1].
L’osservazione di Edgard Morin coglie un importante aspetto, o forse un paradosso della comunicazione. I mass media hanno creato una generazione di uomini muti. Non ci può essere dialogo con la platea televisiva, incapace di un feedback immediato, assorta in uno stato di sospensione ipnotica, apparentemente partecipe e presente, ma sostanzialmente assente e svagata, sempre proiettata in un altrove. Diverso, il teatro dal vivo che, nella presentazione dialogica di situazioni dialettiche e spesso conflittuali, richiede al pubblico una risposta viva, una partecipazione empatica[2].  Certo, molte barriere sembrano essere cadute: “si va diffondendo… un linguaggio non più sincretico, ma universale …”; è il linguaggio iconico, il linguaggio delle immagini, delle foto, dei film; eppure, mai come ora, l’individuo ha dovuto constatare la propria solitudine dolente. Depotenziata la capacità comunicativa tra agenti umani, anche il rapporto comunicativo con le cose è divenuto arido e sterile. La cultura di massa “ fa dello spettatore un fantasma, proietta al suo spirito nella pluralità degli universi immaginati o immaginari, disperde la sua anima negli innumerevoli doppi che vivono per lui”[3]. Non è vita da svegli: “è una sorta di sonnambulismo permanente, di psicosi ossessiva, una specie di sogno ininterrotto, che dichiara il bisogno di un’evasione onirica o mitica al di fuori del mondo civilizzato, chiuso, burocratizzato”[4].
In questa terra deserta c’è chi reclama un compenso d’amore : “Tale ricerca (dell’amore), in parte alla Don Giovanni, in parte alla Tristano, che vuole operare la congiunzione di Eros e Psiche, svela il movimento complesso e profondo dell’individualismo moderno, consistente nel tentativo di comunicare con l’altro, di perdersi e di affermarsi nello sguardo di un alter ego amoroso[5].
Le modalità della comunicazione sociale non solo non agevolano la vera comunicazione , ma spesso creano delle barriere: “Vi sono parecchi modi di comunicare con gli altri; e la vita sociale altro non è che l’insieme di questi mezzi, il principale dei quali è la parola … però non appena sorpassiamo il piano del pratico per accedere a quello del vissuto e dell’esistenziale, sentiamo che le forme socializzate della comunicazione non ci sono più di grande aiuto, oltre ad essere, spesso, ostacolo al nostro progetto, poiché installano una specie di schermo fra gli altri e me  e stabiliscono l’intervallo che vorremo abolire”[6]. Affinché venga abolito l’intervallo,  necessario che i mezzi di comunicazione producano “ il miracolo della presenza reciproca, senza cui la comunicazione con gli altri non è possibile”[7]. La presenza reciproca, osserva Jolivet, allude però ad un’altra presenza e la parola appare come preludio al silenzio: “ Ora si comprende meglio la virtù del silenzio, in cui si compie ogni comunicazione autentica … dov’è Dio , solo il silenzio corrisponde alla pienezza del sentimento. Il silenzio della comunicazione esprime il sentimento indicibile che Dio è là e che è lui che fa la nostra verità e la nostra unità”[8].
Non che nel mondo contemporaneo facciano difetto le parole. Si tratta piuttosto dell’opposto. C’è un consumo enorme di parole, un ronzio di parole prive di significato: “E’ tutto un unico mormorio, che esiste prima che l’uomo inizi a parlare e che continua quando egli finisce”. Sul vuoto della parola, sorge allora il silenzio. “Nei momenti solenni della vita comunichiamo solo attraverso il silenzio”[9]. Alla base di osservazioni di questo tipo, è uno spunto agostiniano suggestivo, per cui, se è vero che le parole sono segni, è pur vero che con le parole non apprendiamo che altre parole, anzi il suono e lo strepito di esse, e che dopo aver conosciuto le cose, otteniamo anche la conoscenza della parola, ma non viceversa. Da qui l’invito a dare ascolto al “maestro interiore” a non essere sordi nell’orecchio del cuore, a prestare attenzione alla verità che parla senza far rumore di sillabe. Anche ai fini della poesia il silenzio è passo significante: nella poesia si è detto, la pausa è una forma di silenzio pieno.
Si poneva in tal modo una distinzione tra silenzio vuoto e silenzio pieno, tra silenzio privo di significato e silenzio significativo. Le poesie che meglio di altre esaltano il valore del silenzio, sono quelle di Giuseppe Ungaretti. Essi hanno, a volte, il vuoto e angoscioso stupore delle piazze della pittura metafisica. Così nella poesia Eterno la inesprimibilità appare come il vuoto-pieno che corre tra il fiore colto e l’altro donato e il silenzio come un lucido spazio di vibrazione tra la parola detta e la parola ancora da dire: “ Tra un fiore colto e l’altro donato l’inesprimibile nulla”[10]. La stessa ricerca della parola sintetica, evocativa è a volte preludio del silenzio; e a tal proposito ricordo un bel verso di Paul Valéry : “Tu sul mio labbro e io nel mio silenzio”[11].
Dalla letteratura è possibile ricavare un insieme di topoi che mostrano quanto sia complesso in realtà il problema del rapporto tra dialogo e silenzio,  che non può essere ridotto alla semplice antitesi tra parlare e tacere. Ci sono varie modalità o vari livelli dell’uno o dell’altro. C’è il parlare gorgogliante  insensato, come nel teatro di Samuel Beckett; c’è il consumo delle parole, proprio dell’inflazione di messaggi nel mondo delle comunicazioni di massa; e c’è la parola piena dello scambio empatico. A volte, poi, il silenzio testimonia la sensazione che si è giunti , per così dire, ai limiti del linguaggio[12]. Evitata la considerazione del linguaggio “ come una gabbia che coarta la nostra libertà di movimento”, Van Buren propone l’immagine di una piattaforma su cui stare. Su questa piattaforma possiamo girare intorno, camminare o danzare o dormire, fare cioè tutte quelle cose che facciamo con le parole. Lungi dall’imprigionarci, ciò ci rende liberi”. Ciò che non viene detto, allora, è ciò che non può o non deve essere detto, l’indicibile. Solo il silenzio può tentare di dire l‘indicibile. Sembra, questo , il punto di massima tensione in cui si giunge alla convertibilità di parola e silenzio. D’altra parte l’universo delle parole è come circondato dalle acque notturne, dall’indicibile, da ciò che non arriva al punto da  poter essere detto. La poesia è carica di questi umori notturni: la parola in essa è avvertita nel suo farsi, nella sua emersione, non in quanto pronunciata, ma in quanto si pronuncia. Nella filosofia del nostro secolo, non mancano vene di misticismo e richiami al silenzio,  inteso come la dimensione di ciò che non può essere detto e  che “si mostra”[13].
C’è la parola.  “The rest   is  silence”[14].

*Articolo pubblicato su “Leukanikà”, Rivista lucana di varia cultura, anno X (2010), n. 1-2, Luglio 2010, pp.5-6.


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[1] E. Morin, L’Esprit du Temps, Paris,  Grasset 1962, trad. L’Industria Culturale, Bologna, Il Mulino, 1963, p. 182.
[2] B. Lauretano, La transazione drammatica, in “Nuova Corrente” 1972, pp. 57-58; 176-193. E quindi, La scrittura scenica,  in “Teatroltre” 1973, pp. 25-31.
[3] E. Morin,  op.  cit., p. 162.
[4] Ivi, p. 111.
[5] Ivi, p. 138.
[6] E. Jolivet, Saggio sul problema della sincerità, Torino,  SEI 1955, p. 113.
[7] Ivi, pp. 127 e 140.
[8] M. Picard, La fuga davanti a Dio, Milano Ed. di Comunità 1948, pp. 113, 115 e 119.
[9] M. F. Sciacca, Come si vince a Waterloo, Milano, Marzorati 1957, pp. 56-57: “Vi è nel silenzio una capacità di dono che ci offre interi come vittime all’altare”; “parlare è generare dal mio silenzio la parola che entra nel silenzio del tu a cui si indirizza”; “La potenza significante della parola è data dal silenzio che contiene e che provoca … è il silenzio che rende feconda la parola, che le dà degli eredi”(ivi, p. 117).
[10] G. Ungaretti, Eterno, in L’Allegria, Milano, Mondatori 1945, II ed., p. 13.
[11] P. Valéry, Frammenti del Narciso, in Poesies , Paris, Gallimard, 1942.
[12] P. M. Van Buren, New York ,  Macmillan 1972, trad. Alle frontiere del linguaggio, a cura di D. Antiseri, Roma,  Armando 1977, in particolare p. 87 ss. Nota Van Buren : “ Il linguaggio ha dei limiti … ha dei limiti perché le sue regole coprono aree di applicazione specificabili”(ivi, p. 87).
[13]  Ivi, pp. 90-91. “C’è veramente l’inesprimibile. Si mostra , è ciò che è mistico”; “ Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. a cura di G. C. M. Colombo, Milano-Roma, Bocca 1954, pp. 284-285.
[14] W. Shakspeare, The tragedy of Hamlet, atto V, scena II. Per la tentazione del silenzio come unica alternativa al disumano, nella prospettiva di una cultura umanistica, considerata nei suoi rapporti con la crisi attuale dell’uomo, i mezzi di comunicazione di massa, la realtà politica e il mondo tecnologico, cfr. Linguaggio e silenzio, in Saggi sul linguaggio la letteratura e l’inumano, a cura di R. Bianchi, Milano , Rizzoli 1972, tratto da G. Steiner, Language and silence . Essays on language, literature and  the Inhuman, 1958.


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