martedì 31 gennaio 2012

Recensione al saggio Matteo, l’avvocato dell’opera Opus de Hominibus di Mauro Montacchiesi.

Vanitas vanitatum…


di Lucia Capo

Vanitas vanitatum et omnia vanitas: vanità delle vanità e tutto è vanità. Così recita l’Ecclesiaste, uno dei più bei libri del Vecchio Testamento. Qohelet era un sapiente il quale dopo un’attenta indagine su una esistenza condotta a livelli puramente fisici e corporei, giunge alla conclusione che tutto è vanità.
E’ questo il tema del saggio dell’opera Opus de hominibus di Mauro Montacchiesi dal titolo Matteo, l’avvocato; saggio di raffinato e inquietante fascino. Si apre con questa riflessione sulla vanità; perché questo esordio? L’autore con capillare competenza psicologica  ci descrive Matteo: un bell’uomo tra i cinquanta e cinquantacinque anni, alto m. 1,80, uomo di successo, brillante, simpatico, separato, vive solo in una splendida villa sul Lago di Castel Gandolfo, è uno sportivo e un raffinato viveur. Egli parla troppo, quasi a voler nascondere il proprio Io , quasi a voler impedire agli altri di porre domande, quasi avesse paura di essere penetrato e scoperto. E’ un bell’uomo, un gaudente, ma il suo volto ha qualcosa di misterioso e riconduce l’autore all’immagine dei mostri della villa di Bomarzo; soprattutto egli ricorda il mascherone, quel mascherone che è stato chiamato “Porta dell’inferno”.
Nel mascherone si può entrare e vi si trova una tavola in pietra adibita a banchetti da consumare prima della catabasi, prima della discesa all’Inferno. Sono banchetti annaffiati da vino che inebria e dà l’oblio.
Matteo utilizza l’allegoria di una vita edonistica come oppiaceo delle sue paure e degli incubi della condizione umana. Ecco il suo volto è la porta dell’Inferno, del suo Inferno popolato da mostri, gli stessi mostri che popolano il parco della Villa di Bomarzo. Il parco che venne ideato da Pirro Ligorio a partire dal 1522 e fatto costruire dal principe Orsini in onore dell’amatissima moglie Giulia Farnese. Come per il principe così anche per Matteo l’edonismo è una reazione al dolore e nella villa così come nell’anima di Matteo ci sono dei mostri occulti, capricciosi, eccentrici, assurdi.
Matteo, quindi, percorre il bosco sacro e questo è un percorso di catarsi per arrivare alla sublimazione della propria anima. Ma qual è la sofferenza di Matteo ? forse egli si porta dietro complessi giovanili o forse in ognuno c’è un doppio, un pizzico di follia, un tutto e un nulla dove albergano infinite potenzialità, e come se lui girovagasse in un labirinto di specchi.
L’autore paragona l’anima di Matteo ad un’opera famosa, L’urlo del pittore norvegese Munch. E’ il tormento esistenziale, è come se l’uomo indugiasse su un parapetto che dà su un mare che si tinge di nero e di azzurro. In uno scenario metafisico questa forma tortuosa ha uno sguardo che è delirio, è l’urlo contro l’ipocrisia umana,  un urlo che scende in profondità.
L’urlo e con esso la maschera. Nel rito del mascheramento affiora il doppio, l’ombra prediletta, l’aspetto lungamente rimosso. E’ il mondo degli spettri, delle ombre,  si assiste qui, come nel teatro delle ombre, allo svolgersi di vicende, ma il mascheramento è il rito del vuoto, della perdita, del mancamento?
Originariamente il termine latino persona, voce di probabile origine etrusca, stava a significare “maschera teatrale”, ad indicare , quindi, la parte che un uomo è tenuto a rappresentare, il ruolo che è tenuto a ricoprire.
La dimensione della maschera si apre laddove l’individualità entra in crisi, crisi da intendere e come ricerca di sé, di qualcosa che non si ha, e come perdita, come mancamento.
Lo stato di sogno è la condizione della vita in maschera che diviene esperienza di delirio, di metamorfosi e di smarrimento. Alla base del mascheramento è la vita ebbra e smodata, l’eccesso , il parossismo collettivo, la festa.
E Callois in “Les jeux e les hommes, la masque e la vertige” nota che le maschere fanno la loro apparizione nel corso della festa, “ interregno di rovinoso furore e instabilità”, in cui tutto ciò che al mondo c’è di stabile e ordinato viene provvisoriamente abolito per riuscirne vivificato… la festa, il dilapidare i beni accumulati, la sregolatezza divenuta regola e ogni norma viene capovolta dalla presenza contagiosa delle maschere che fanno della vetigine collettiva il punto culminante e aggregante dell’esistenza pubblica.
Ricordo un’opera straordinaria, “Lo straniero”, di A. Camus, ove il protagonista si augura che la folla lo accolga con grida di odio. E’ la storia di un uomo che viene processatoo e condannato dalla società non perché ha ucciso ma perché  alla presenza della madre morta ha bevuto  un cappuccino e dopo il funerale ha visto un film comico.
Pertanto non ha rispettato il suo ruolo e la sua società “dove tutto è vero e dove niente è vero” lo ha condannato.
L’autore ci conduce attraverso la ritualità della perdita e della resurrezione dove la strada che porta alla riscoperta di sé passa attraverso gli abissi e dove negazione e perdita costituiscono il prezzo che bisogna pagare alla presenza.
Il perdersi è il primo atto del ritrovarsi.
Si può notare come in questo inquietante saggio l’autore faccia un’esplorazione profonda e uno scavo nell’anima, considerata nel suo giusto spirito notturno aldilà della sua lucente apparenza.

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