lunedì 29 ottobre 2012

Il tempo (che) non cambia





«Che tempo fa?»: domanda che risuona sovente fin dal mattino, quando uno si alza e va alla finestra per osservare il cielo, domanda pronunciata tra sé e sé, la cui risposta è cercata nelle previsioni meteorologiche alla televisione o nelle pagine dei quotidiani. Da sempre, l’essere umano sa che il suo modo di abitare «il tempo che passa» dipende anche dal «tempo che fa», un tempo, quest’ultimo, che condiziona il lavoro, gli spostamenti, l’umore di ciascuno. Oggi questi condizionamenti sembrerebbero minori di una volta: il lavoro in campagna riguarda una percentuale esigua degli abitanti dell’Occidente industrializzato, i mezzi di trasporto e le strade consentono spostamenti anche in condizioni atmosferiche un tempo proibitive… eppure l’interesse per «il tempo che fa» non è affatto diminuito, anzi è aumentato al punto che per alcuni è diventato un’autentica ossessione. Sì, ci si tiene costantemente aggiornati sul «meteo», se ne parla molto: la capacità – sconosciuta nei secoli passati – di prevedere il tempo con un anticipo di almeno una settimana spinge infatti a «sapere», a commentare, a discutere, anche se poi assai raramente ci si lascia determinare dal tempo nelle scelte e nei comportamenti.
Ma all’interno di questa «ossessione» c’è un altro aspetto che riguarda la lettura che ognuno di noi compie del «tempo che fa»: questa dipende essenzialmente da quanto ci dicono i mass media, verso i quali c’è un atteggiamento di fiducia quasi fideistica che toglie la possibile oggettività, il discernimento personale, la capacità di giudicare da se stessi a partire dall’esperienza e dal ricordo degli anni precedenti. Così, quando sta piovendo e noi leggiamo, ascoltiamo e vediamo servizi su piogge torrenziali, alluvioni, inondazioni e diluvi, siamo presi da paura e sgomento come se la pioggia in sé fosse una novità imprevedibile; oppure la pioggia tarda a venire e subito ci vien fatto intravedere il deserto che avanza: allora immaginiamo già le nostre verdi colline riarse, senza più viti né alberi… Se poi in estate fa caldo, assieme al televisore accendiamo il condizionatore e ci angosciamo per il surriscaldamento del pianeta e lo scioglimento dei ghiacciai. Previsioni disastrose, pessimistiche mettono in movimento una grammatica apocalittica che preannuncia «eventi biblici» (tra l’altro non si capisce perché gli eventi biblici, che sono eventi umani, devono essere tutti disastrosi, epocali…). C’è sempre un’apocalisse meteorologica incombente, così le nostre paure del domani si concentrano ancora una volta sul tempo: non più la fine del tempo – questo ormai è divenuto un aeternum continuum – ma il «che tempo fa?» è divenuto l’oggetto delle nostre paure.
E la gente si ritrova a ripetere le frasi di sempre: «Il tempo è cambiato… Non ci sono più le stagioni… Mai visto un tempo simile… Non c’è più il tempo di una volta… Ormai il tempo è matto…» Parole che ritroviamo già ai tempi di Lucrezio, attento osservatore delle cose della natura, quando si ammoniva a non dire: «quand’ero piccolo nevicava tantissimo, adesso non nevica più…»; quando si è piccoli, infatti, anche se la neve è poca, sembra sempre molto alta! In realtà siccità, pioggia, inondazioni, tempeste sono emergenze periodiche di tutte le epoche e di tutti i luoghi: emergenze che cancelliamo dalla nostra memoria e che così ci appaiono ogni volta come novità inedite.

 (Enzo Bianchi, tratto da «Il pane di ieri»)

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