venerdì 3 maggio 2013

I RACCONTI DI VENER dì - Giuseppina Zupi




La metafora della vita


Autrice: Giuseppina Zupi

Si sorprendeva a fantasticare su situazioni fantascientifiche e paradossali, mutuate dalla fisica quantistica: dimensioni parallele, vite alternative e possibili. Un evento poteva svilupparsi secondo infinite modalità, in universi differenti, separati e distinti dal nostro ma coesistenti con esso. Tuttavia le infinite possibilità si contraevano in una soltanto o almeno così era dato percepire agli umani, anche se la verità poteva essere altra. Se aprivi la porta A, oltrepassando la soglia, impattavi in un determinato destino. Se aprivi la porta B, varcando l’ingresso, ne percorrevi un altro totalmente difforme.
Con l’impeto, l’istinto e le aspettative della giovinezza, aveva spalancato una porta, non sapeva se era la A o la B, non sapeva cosa l’attendeva, avrebbe potuto aprire l’altra ma aveva scelto proprio quella, dando corso all’imponderabile sorte.
Incontrava un bel giovane, con occhi neri e profondi come abissi che la catturavano subito, studioso, serio. La famiglia sembrava serena, accogliente, anche benestante. Il ragazzo diventava suo marito. Si iscriveva all’Università, una facoltà dove conseguiva ottimi risultati con relativa facilità, tanto da laurearsi prima dei tempi previsti. Vinti alcuni concorsi, aveva scelto un Ente di alto livello e di buona retribuzione. Il suo dirigente era una persona apprezzabile che la stimava e la coinvolgeva, anche i colleghi erano molto disponibili, lavorava in squadra con un rapporto di collaborazione e allegria. La famiglia di origine, nell’ambito del suo matrimonio, si mostrava molto discreta: non interferiva, non  ingombrava. Aveva avuto bravi figlioli.
A questo punto le sembrava di aver scelto la porta giusta, la migliore. Ma sembrare non equivaleva a essere, la verità poteva essere altra. Così come nella Repubblica di Platone, nel mito della caverna, i prigionieri vedevano le ombre proiettate sul muro e le percepivano come reali.
Il bel giovane sfruttava e approfittava della sua bellezza, gli occhi neri e profondi erano colmi di menzogna, indecifrabili come abissi. Lo studio e l’impegno sforavano in ambizione sfrenata. La famiglia accogliente l’aveva fagocitata e umiliata. Benestante era solo la facciata di creature mediocri.
Aveva terminato l’Università prima del previsto, uscendone stremata ed incapace di maggiori aspirazioni, se non quella di un impiego. Il suo capo, dopo alcuni anni, ammalatosi gravemente veniva meno, lasciando lo staff nello sconforto e allo sbando. Non solo, a breve, l’Ente parastatale chiudeva, il personale si trovava disgregato, lei inserita in un ministero frustrante e anonimo. Nel tempo aveva compreso che, la sua famiglia di origine, era stata ben felice che si fosse sposata e tolta di torno perché invischiata in problematiche antiche. Non aveva tempo e spazio per gli unici nipoti, occupata ad occultare le piaghe che l’avviluppavano. Era felice di aver avuto i figli. Da piccoli era una gioia curarli, accudirli amarli. Da grandi più difficile. Le rimaneva il disappunto che, come molti ragazzi, mancavano di progettualità, di relazioni di spessore, di aspettative per il futuro.
Ormai versava nella situazione in cui non esistevano più porte da aprire ma solo da chiudere. Immaginava di percorrere un lungo corridoio, una miriade di stanze separate da porte. Entrando in ogni ambiente, serrava l’uscio dietro di sé. Il primo era grandioso, ampio, affrescato, come quelli dei palazzi gentilizi. Man mano che procedeva le dimensioni degli ambienti e delle porte si riducevano progressivamente, fino a far fatica ad entrare. Quel percorso a tappe era gravoso, le procurava una debilitazione sempre maggiore e inspiegabile. Al fine chiudeva una porticina minuscola come un abbaino. Accedeva ad un luogo stretto, sviluppato in lunghezza ma talmente angusto che era a malapena in grado di contenere il suo corpo. Non era triste né angosciata, solo stanca, affaticata, stremata.
Si stendeva al suolo, cedendo all’oblio del sonno.
Un raggio di sole caldo penetrava dai vetri polverosi e opachi, avvolgendola nel bagliore smagliante della verità.

Dov’è la verità? Cosa possiamo comprendere, mentre procediamo lungo il percorso dell’esistenza? Giuseppina Zupi ci dà la sua risposta in un racconto che è densa, forte metafora: i livelli di conoscenza, di comprensione, sono sempre molteplici e variabili, e, infatti, la protagonista de «La metafora della vita» attraversa la propria esistenza con un crescente grado di consapevolezza, che toglie man mano i veli che appannavano la vista. È un “togliere” doloroso ma necessario.
Giuseppina Zupi è molto attenta nel descrivere la crescente amarezza, la debilitante fatica, e particolarmente indovinata è l’immagine delle stanze attraversate che si fanno sempre più piccole: metafora di un’apparenza che incanta sempre meno, prima che giunga l’intensa luce della verità.
 «La metafora della vita» sottolinea che ogni passo compiuto è necessario, perché solo quando ogni passo è compiuto, è possibile passare al successivo.

Per contattare l’autrice: giuseppina.zupi@mit.gov.it

Della stessa autrice: Gli affreschi di Michelangelo

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