domenica 4 agosto 2013

La bignonia, le cicale, le Muse



Che cos’è una bignonia se non una cicala vegetale? Se la si osserva bene nel silenzio, si ode un suono quasi impercettibile, un canto all’estate. Sul muro di cinta che divide il mio giardinetto dall’orto del monastero di San Bernardino, a Viterbo, questa pianta di origine tropicale, che fiorisce per tutta l’estate con i suoi numerosi fiori rosso-arancio, simili a minuscole trombette, si arrampica nell’angolo su cui batte il primo sole. D’inverno è spoglia e scheletrica, quasi a lamentare la vedovanza del sole. A luglio, invece, è una cascata di fiori fiammeggianti che nella calura sembrano cantare insieme con le cicale nella sottostante Vallecupa un inno di gioia a Elio. E, come le cicale durano il tempo di un’estate, così i suoi fiori, che si rinnovano freneticamente sotto il solleone, appassiscono rapidamente e cadono.
Secondo una leggenda ispirata a un mito platonico, prima della nascita delle Muse le cicale erano degli uomini. Quando le figlie di Zeus e Mnemosine comparvero sull’Olimpo alcuni uomini furono così ammaliati dal loro canto che si scordarono di bere e mangiare e morirono sfiniti. Da quegli uomini nacque la famiglia delle cicale alle quali le Muse hanno concesso il privilegio di cantare senza toccar cibo e di salire fino a loro per riferire notizie su chi le onori sulla terra. Sempre secondo lo stesso mito, alla morte le cicale si trasformerebbero per incanto nella pianta che più somiglia loro, la solare bignonia che continua a cantare con la sua musica vegetale, percepibile soltanto dagli uomini capaci col cuore di cogliere il suo canto in onore del maestro delle Muse, Apollo-Elio, il cui plettro è il luminoso raggio del sole. Sicché la bignonia è diventata una delle piante sacre al sole e non a caso fiorisce dal solstizio d’estate all’equinozio d’autunno; e come la cicala è l’ideogramma della vita felice nella luce e nella bellezza, ma propizia anche l’ispirazione di scrittori e artisti.
Come potrebbe essere altrimenti se nella vita precedente ha potuto, sotto le sembianze di una cicala, salire fin nel regno delle Muse?

(Alfredo Cattabiani, tratto da “Lunario”)


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