venerdì 5 settembre 2014

I RACCONTI DI VENER dì - Monica Fiorentino



Odi et Amo

Autrice: Monica Fiorentino

Lettera 21. 
Poggiata con la schiena contro quel palo, legno di fortuna, dove potersi sistemare per riprendere fiato, lentamente il capo di Alice si abbassò privo di forza. Seduta fra quella polvere, percepiva fluire il sangue fuori dal suo ventre come succo caldo. Dolore, solo quello era ciò che provava, un forte, sconfinato dolore, il sangue le colava via come una falla, e lei non riusciva ad arrestarlo. Aveva corso tutto il tempo per fuggire a quei colpi di mitraglia ben assestati, ma tanto spreco di energie era valso a salvarle la vita, o era stato buono solo ad aumentare l’agonia prima di perderla definitivamente? Una pioggia di ferro le aveva letteralmente trapanato la pancia, guerriglieri dal volto coperto, l’avevano assalita, lei, intenta semplicemente a leggere un libro su di una panca sgangherata, era divenuta per la loro ferocia bersaglio mobile. Stava perdendo troppo sangue, e cominciava a sentire le ginocchia molli. Il fiato tiepido di qualcuno al suo fianco di colpo la fece trasalire, e aprendo gli occhi scoprì due iridi color dell’ambra puntarla in viso. Un lupo, ce ne erano molti in quei giorni liberi per il paese, probabilmente scesi dalla montagna in cerca di cibo, anime in pena a trovare ancor prima la morte, fra i calci di beffa sferrati dai soldati per gioco. Lenta la giovane sollevò la mano, sapeva per certo che lui non le avrebbe fatto alcun male, l’altra premuta sull’addome “Enea…” lo chiamò d’istinto dandogli un nome. Il lupo al suono della sua voce reclinò di sbieco il capo, quasi in segno di saluto. “Avrà fame poverino…”. Il cibo, chissà se nella sua gola sarebbe più entrato qualcosa, per finire poi dove? qualcuno in quel carnaio di cadaveri e teste mozzate a cielo aperto, l’avrebbe mai scorta rincantucciata in quel posto, per chiamare un medico in grado di ricucirla?. Il volto di Fabrizio le venne allora dinnanzi in tutta la sua prepotenza e lei sorrise, incurante della sofferenza. Fabrizio, il suo Fabrizio, proprio lui che amava tanto la cucina e il cui unico sogno era divenire un cuoco fra i più stellati. Il sapore dei suoi biscotti fragranti l’invase il palato, il profumo di zucchero e cannella che aleggiava nella sua cucina, quattro mura piene di tegami in rame alle pareti, una cucina grossa, quasi marziale, come piaceva a lui, in stile tedesco; rimasto orfano molto presto era stato grazie alle sue doti culinarie se era riuscito a farsi strada a gomitate: spaghetti pomodori e basilico, avvolti con uova e prosciutto, salse squisite, rollè di vitello arrosto, tortellini in brodo, pollo in crosta, contorni di verdure fresche fantasia; solo e senza famiglia aveva imparato dapprima a farsi il pane per non morire di fame, poi a condividerlo con gli altri facendolo divenire vita e lavoro. “Devo andare, cucinerò per l’esercito intero probabilmente!” le aveva detto una mattina, sventolando sotto i suoi occhi la cartolina scura di chiamata alle armi, che più di un giovane stava ricevendo per servire la propria patria in quel periodo e riportare la pace. E lei aveva cominciato nel silenzio l’attesa. Chiedendosi solo in quel mentre, seduta nella pozza del suo stesso sangue, sotto quella luna a inondarle di luce le guancie, se non avesse abbandonato mestoli e coltelli per imbracciare un fucile. Era stato lui a farla divenire donna, nella foga dei loro vent’anni, conosciutisi sui banchi di scuola, avevano consumato l’amore come un fiore in boccio, attraverso la pelle l’uno dell’altra. Fabrizio coi suoi sorrisi, le sue passioni, capelli a zazzera, labbra di melograno. Alice guardò le sue gambe imbrattate di sangue e poggiò la fronte contro quella ispida del lupo. “Amore/ Gronda sulla mia bocca/ il tuo nome”  il suo haiku preferito, il suo sogno. “Fonderai una Casa Editrice Indipendente appena questa dannata guerra sarà cessata, e la gente riprenderà a leggere, vedrai!” le aveva detto lui, che vedeva le cose sempre in grande, allargando le braccia “Ed io cucinerò a tutte le tue serate di gala!” Fabrizio quel lupacchiotto smarrito, occhi scuri, gabbiano dalle lunghe ali. In quell’istante una fitta la fece inclinare e i suoi occhi si riempirono di lacrime, in quel ventre non sarebbe più entrato nulla, Enea le leccò allora il viso “Sapeva ascoltare, e sapeva leggere. Non i Libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso” Novecento di Alessandro Baricco. Il loro Libro. L’amavano in due. Fabrizio era tutto in quella frase, era sempre stato così, capace di leggere le persone, e in quel mentre lei ricordò quel passo sentendolo vicino, vicino il suo amore. Una folata di vento caldo si levò, facendole provare se era possibile, ancora più dolore, e a lei parve di vedere Fabrizio chinarsi sul suo corpo martoriato, tendendole  la mano per aiutarla a risollevarsi, e pensò all’assurdità della guerra e di quel fragore di bombe in lontananza “Odi et amo”  l’inizio del carme Ottantacinque di Catullo, Odio e Amo, Odio e Amore,  in quel momento non aveva lo stesso, preciso senso, che il filosofo gli aveva dato all’origine, ma Alice lo sentì suo “È questa la Guerra! Illogica sventura del genere umano a farlo piegare, Odio sopra l’Amore!” si curvò in due all’ennesimo fiotto copioso. Odio una parola che lei non usava mai, nemmeno nei suoi scritti, mai nei suoi haiku, Amore diveniva in quel momento, per una ragione insensata parola semplice, su cui poter sputare a gran voce. E levando gli occhi, con la fronte madida di sudore la giovane chinò il capo, vinta, contro il muso di Enea a bagnare quel suo ultimo sospiro “Amore… sei qui Fabrizio!”
“Mentre di lontano, gli occhi viola di quell’angelo sopra la guerra, si chiusero in segno di  lutto”.

L’odio, l’amore, lo scontro: tutta la potenza espressiva di Monica Fiorentino è racchiusa (anche) in questo racconto particolarmente denso, toccante: la morte che arriva e ghermisce, la morte irragionevole della guerra, l’illogica falce che tutto distrugge.
Grazie alle parole di Monica Fiorentino “sorvoliamo” la zona di guerra e al tempo stesso riusciamo ad entrate nel cuore dei protagonisti, smarriti in situazioni più grandi di loro ma anche lucidi nel prendere atto “sul campo” di quanto l’odio possa essere ottuso, cieco, ingestibile.
La voce profonda di questa grande artista ci fa rendere conto, una volta di più, della necessità di fermarsi in tempo.

Della stessa autrice:  Post Scriptum

Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it

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