Le tre soglie
C'erano una volta tre fratelli che
decisero di affrontare l'intricato Dedalo delle Soglie: era un luogo immenso,
composto da alte mura, siepi impenetrabili, custodi, sortilegi e altre
meraviglie.
Si narrava che, se qualcuno fosse
riuscito a risolvere il labirinto, sarebbe andato incontro ad un destino
radioso. E così i tre fratelli si recarono all’ingresso di quel luogo
prodigioso ed entrarono, per separarsi ai primi bivi e proseguire da soli
nell'esplorazione di quei meandri, alla ricerca della soluzione.
Il primo, dopo aver peregrinato a caso,
giunse a una massiccia porta di legno, rinforzata con lamine metalliche e
chiusa da un grosso lucchetto di ottone. Provò ad abbattere l’uscio a pugni e
calci, a scassinarlo tirando con forza, a picchiare e ad urlare che qualcuno
gli aprisse, ma non accade nulla. Provò anche ad aggirarlo prendendo altre
strade, ma alla fine l’uomo tornava sempre nel medesimo punto.
Ben presto si rese conto che i suoi
tentativi erano del tutto infruttuosi: la sola possibilità che gli rimase fu
quella di tornare sui propri passi e dichiararsi sconfitto.
Il secondo fratello vagò più a lungo tra
le cinte murarie e i fitti filari di arbusti, seguendo un preciso schema,
studiato in maniera meticolosa, finchè si trovò innanzi ad un ampio e massiccio
portone di bronzo. L’uomo calcolò la direzione del vento e il tasso di umidità,
e provò a fondere la serratura con una lente che convogliava i raggi del sole,
ma il tentativo fa vano. Poi valutò con estrema precisione la posizione degli
astri e recitò delle formule magiche, tuttavia anche questa volta non accadde
nulla. Infine posò l’orecchio sulla lamina, ascoltando attentamente, poi
esaminò con estrema cura la superficie del portone in cerca di sportelli
segreti e comparti nascosti, ma non trovò niente.
E così, dopo innumerevoli e disparati
esperimenti, anche lui fu costretto a seguire a ritroso il proprio cammino ed
uscì sopraffatto dall’enigma.
Il terzo vagò per molti giorni,
addentrandosi nel profondo del labirinto, dove infine trovò la propria strada
sbarrata da una piccola porticina d’ulivo, impreziosita dalle magnifiche
venature del legno. Provò ad aprirla servendosi della maniglia, ma inutilmente:
sembrava chiusa a chiave.
L’uscio, che aveva intagliato al centro
un bel volto stilizzato, gli rivolse la parola:
“Buongiorno Messere. Cosa desiderate da
me, umile porta di questo labirinto?”
L’uomo rifletté qualche istante, poi
rispose:
“Voglio che tu ti apra e che mi faccia
passare”
Il viso sulla porta non cambiò la
propria espressione neutra e rispose:
“Mi spiace, ma temo che questo non sia
possibile”
L’uomo si stizzì:
“Sei solo una porta: ti ordino di
aprirti!”
“Mi spiace, ma non posso proprio farlo”
“Se non ti aprirai, ti trafiggerò con la
mia lama fino ad abbatterti, ed il tuo sarà stato un sacrificio inutile!”
Il terzo fratello, infatti, era un prode
guerriero e aveva al proprio fianco una spada dura e affilata, compagna di
molte battaglie vittoriose.
“Mi spiace: comunque non mi aprirò”
replicò ancora la soglia.
Allora l’uomo estrasse la propria arma e
iniziò a tirare fendenti, ma i suoi sforzi si rivelarono inefficaci: nonostante
il possente cavaliere impiegasse tutta la sua forza, sul bel legno scuro non
apparve neppure un minuscolo graffio.
E così, dopo un giorno e una notte
trascorsi a minacciare, insultare e colpire l’uscio, anche il terzo fratello
dovette uscire a capo chino dal labirinto.
I tre fratelli però avevano anche una
giovane sorella, che entrò a sua volta nel dedalo. Giunta alla prima porta, di
legno borchiato e chiusa dal lucchetto, la ragazza alzò lo zerbino e trovò la
chiave che apriva la serratura, spalancando la porta.
Oltrepassò l’uscio e poco dopo giunse al
grande portone di bronzo. Qui non fece nessuna delle complesse manovre compiute
da suo fratello, ma semplicemente posò la mano sulla maniglia, piegandola: la
porta si aprì senza opporre alcuna resistenza (suo fratello aveva provato in
mille modi complicati e stravaganti, senza tentare il sistema più semplice!).
La ragazza giunse infine alla terza
porta, quella con il volto di ulivo. Quando le fu vicina, il viso intagliato le
chiese:
“Buonasera Milady. Cosa desiderate da
me, umile porta di questo labirinto?”
“Buonasera Mastro Portale. Sarei molto
contenta se poteste gentilmente aprirvi, per cortesia”
“Certamente, nessun problema” rispose la
soglia, schiudendosi e rivelando la fine del labirinto.
La ragazza si chiamava Idea, ed è questo
che dovrebbero fare tutte le idee, prima di uscire dagli intrecci della mente:
superare una prima porta se il concetto è intelligente, oltrepassare una
seconda soglia per verificare che sia utile e necessario, e infine valicare
l’ultimo sbarramento solo se il pensiero è gentile e rispettoso degli altri.
Soltanto in quel momento, oltre le tre
soglie, il pensiero dovrebbe diventare parola.
Massimo Renaldini si misura nel difficile campo della favola e il
risultato è davvero piacevole, “Le tre soglie” miscela con sapienza tutti gli
ingredienti del genere, in primis la metafora.
La “fuoriuscita
delle idee” dal cervello è illustrata gradevolmente, la storia è costruita con
proprietà di linguaggio e capacità di attrarre l’attenzione del lettore. Viene
evidenziata al meglio la morale che spesso non è la forza bruta – e quasi
inevitabilmente ottusa – a cambiare le situazioni, ma ben altre forze meno
evidenti, meno “plateali”, ma più efficaci.
Splendido
messaggio, quindi, quello lanciato da Massimo Renaldini, da far nostro
in ogni occasione di vita.
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