sabato 26 marzo 2016

"La casa sul poggio": l'intervento di Michele Di Lieto



Ecco l’intervento dell’autore Michele Di Lieto alla presentazione del suo romanzo “La casa sul poggio” presso il Liceo Statale “Alfonso Gatto” - Sezione classico ad Agropoli, lo scorso 19 marzo.
Qui trovate alcune foto dell’incontro, mentre qui potete leggere la pagina dedicata al romanzo.
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Signore, signori, giovani e meno giovani, sarò breve, quanto meno tenterò di farlo. Sarò breve per due motivi. Primo: perché non è facile parlare di sé e dei propri libri. Meglio parlare dei libri di un altro. E anche questo, parlare dei libri di un altro, dovrebbe essere vietato a chi scrive. Perché parlare di un libro significa analizzarlo, segnalarne pregi e difetti, scoprirne i sensi nascosti: e questo dovrebbe essere compito del critico, non dello scrittore. Per questo io direi: a ciascuno il suo: il critico al critico, lo scrittore allo scrittore. Ma io sono contro corrente: perché oggi non c’è scrittore che non faccia il critico (e viceversa). Se a questo si aggiunge il giornalista, il politico, o il conduttore, e oggi non c’è giornalista politico o conduttore che non scriva, il circolo si chiude: ed è un circolo vizioso (scrittore-critico-scrittore) e autoreferenziale (io parlo bene di te purché tu faccia di me altrettanto) che alla fine non fa bene né al critico né allo scrittore.
Secondo motivo: ho pensato a questo esperimento come a un incontro che avesse voi, e qui parlo ai giovani, ma non escludo i meno giovani, come protagonisti, e non vorrei rubare la scena ad alcuno. Sono sicuro che molte delle cose che qui dovessi anticipare verranno fuori dalle vostre domande. Il che mi porta a restringere il tema e mi conduce al cuore di questo intervento. Primo. Perché questo incontro. Non è la prima volta che io faccia un esperimento del genere. L’ho fatto qualche anno fa, non dico quanti, non solo sui miei scritti, ma anche su argomenti di carattere generale, e penso si tratti di esperimenti di una certa utilità non solo per i giovani. Qualcuno tra voi ricorderà che un incontro del genere ci ha fatto scoprire lati nascosti e insospettati di giovani fino ad allora apparsi timidi e insicuri. Io stesso ricordo un giovane brillante (non l’ho più visto, non so che fine abbia fatto) sottolineare le pecche di una bozza da me preparata, una bozza tipo quelle che ho distribuito, nella quale non avevo chiarito abbastanza la differenza tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Aveva ragione lui: fui costretto a chiarire. E pertanto: sono convinto che questi incontri possono essere utili non solo per i giovani, ma anche per chi scrive.
D’altra parte, poiché l’occasione, o il pretesto dell’incontro di oggi è dato dall’uscita de La casa sul poggio, non posso non parlare del mio libro. Come è nata l’idea de La casa sul poggio. L’idea mi è venuta proprio dalla casa, che non è sul poggio e non è quella in copertina. È una casa come tante, sparse nelle nostre campagne abbandonate, una casa a due piani, uno per gli uomini l’altro per gli animali, una casa isolata, una casa contadina. Il raffronto mi è venuto spontaneo con le case del centro abitato, più in particolare con le case palizzate, le case ricche, delle quali pure restano notevoli tracce, penso a Laureana, penso a Castellabate, penso a Copersito, ma ce ne sono altre. Case a due o tre piani, quello a piano terra anch’esso destinato agli animali: solo che gli animali non erano buoi, maiali, o pecore e capre, ma solo cavalli, destinati alla carrozza dei ricchi.
Va da sé, per chi mi conosce, che le mie preferenze sono andate da subito alle prime, le case contadine, sì che da subito ho pensato di scrivere la storia di una casa, e di una famiglia contadina: e, poiché non potevo parlare delle famiglie contadine senza parlare delle famiglie non contadine, ho pensato di scrivere la storia di due famiglie, l’una povera, l’altra ricca, gli Ognissanti e i Vanacore del mio libro.
Questa l’idea di fondo che mi ha ispirato, questa l’idea attorno alla quale ho lavorato. Perché un romanzo, quale che sia, non è presente fin dall’inizio nella mente di chi scrive. Un romanzo è una sorta di work in progress che si completa, si arricchisce mano a mano che si scrive. Così, mentre scrivevo, mi è venuta l’idea di fare della famiglia povera una famiglia che ha pure il suo momento di gloria. Una famiglia che esprime un padre stimato e riverito, un girolamino, e un giovane liberale dalle idee avanzate, idealista, utopista, repubblicano convinto. Così mi è venuta l’idea di inserire la storia della famiglia, la storia delle due famiglie nella Storia più ampia, che è sì la storia del Cilento, ma è anche la Storia del Meridione, dal seicento ai giorni nostri.
Storia vera e storia falsa, la Storia vera come sfondo di una storia solo immaginata. Storia vera e storia falsa. Più di uno ha parlato di romanzo storico. Ne ha parlato Italia Sangiovanni nella sua accurata recensione. Italia Sangiovanni sa, voi tutti forse saprete che io non sono convinto che La casa sul poggio sia un romanzo storico. Perché non romanzo storico. Perché nel romanzo storico una è la storia, e qui sono quattro. Perché nel romanzo storico la storia è lontana nel tempo, e qui la storia arriva fin quasi ai giorni nostri. Perché nel romanzo storico la storia falsa fa tutt’uno con la storia vera, e qui la storia falsa viene separata dalla storia vera, viene trattata in modo autonomo, come in maniera autonoma viene trattata la storia vera: anche se si capisce che l’una fa da premessa logica all’altra. Ma, se non è un romanzo storico, che cosa è La casa sul poggio? Non vorrei spaventarvi, ma dirò subito, e senza preamboli, che La casa sul poggio è, voleva essere, un romanzo-denuncia. So bene che il titolo: romanzo-denuncia neppure si attaglia a fatti lontani nel tempo che non arrivano ai giorni nostri. So bene che La casa sul poggio non è Fontamara, che Gomorra è tutt’altra cosa. Ma io sono certo di poter dire che quello era il mio intento: denuncia di mali oscuri, vizi nascosti, problemi irrisolti che, pur essendo risalenti nel tempo, sono comuni ai tempi nostri.
Per questo, piuttosto che di romanzo storico mi piace parlare di romanzo denuncia. Anche se avverto i limiti di questa formula, e i limiti di questa disputa, che rischia di cadere nella forma,  formale, e a me la forma non piace. Prendiamo per buona la mia definizione e passiamo alla sostanza. Romanzo denuncia. Denuncia di che? Denuncia del contrasto onnipresente tra ricchi e poveri, i ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri. Denuncia dei vizi del potere, delle prepotenze, delle angherie che opprimono i poveri cristi e sono il primo anello della corruzione. Denuncia delle miriadi di leggi, delle miriadi di competenze, degli artifici e cavilli che si infiltrano nel processo, e fanno sì che la giustizia diventi ingiustizia, quanto meno per i poveri cristi. Mi soffermerò brevemente su ciascuno di questi profili.
Quanto al contrasto tra ricchi e poveri, dei ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri, ho sostenuto nel libro, per il passato e per un paese essenzialmente agricolo, la tesi, non so quanto fondata, ma è mia, che l’origine di questa anomalia fosse da ricondurre allo stesso modo di acquisto delle proprietà terriere: per questo ho dedicato tanto spazio alle leggi sull’abolizione della feudalità, la prima risalente alla repubblica del ’99, la seconda a Giuseppe Bonaparte, entrambe rimaste sulla carta. Per questo ho parlato del sistema dell’asta, pensato per favorire le classi più indigenti, i contadini, e sfruttato invece dai proprietari terrieri per assicurarsi le terre confiscate alla Chiesa, e diventare da ricchi ricco sfondati. Ma oggi che la proprietà terriera non è più l’asse portante dell’economia del paese, io non saprei indicare le cause di un fenomeno, che allarga sempre più la forbice tra poveri e ricchi, i ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri. Sarà forse il lato deteriore del capitale, sarà il neoliberismo sfrenato, sarà la potenza della finanza, certo è che quella forbice si allarga sempre più, non solo tra il sud e il nord d’Italia, ma tra paese e paese, regioni e regioni del pianeta. Non farò cifre, basterà cliccare su Google per averne conferma.
Quanto al secondo profilo, i vizi del potere, le prepotenze, le angherie che rendono impossibile la vita dei poveri cristi, si riconnettono al primo, i ricchi essendo da sempre i detentori del potere. Un potere che si manifesta forte coi deboli e debole coi forti. Un potere che opprime, un potere che angoscia. Il problema viene affrontato nella quarta parte, ma non mancano esempi nelle altre. Anna Milite, nella sua recensione altrettanto accurata, ricorda la Chiesa della prima parte, che si arricchisce durante la peste, sfruttando l’idea del castigo di Dio, o i Papi della seconda (sempre parte) che concedono indulgenze durante la carestia a chi fa digiuno per due giorni consecutivi. Che voleva dire, badate bene: morite di fame, morite al più presto. Vorrei aggiungerne un terzo. Il Banco, i Banchi, il potere del sistema bancario. Del Banco, e dei banchieri, io parlo nelle prime pagine del romanzo, quando faccio dire al protagonista che “nonostante le prammatiche del reame, avevano l’aspetto di usurai”. Del Banco, e dei banchieri, torno a parlare subito dopo, quando Gesualdo si reca a depositare la somma fino allora nascosta nella cimasa dell’armadio, e il cassiere, alla sola vista del danaro (mille e ottocento ducati) “gli brillarono gli occhi”. Del Banco, e dei banchieri, continuo a parlare più tardi, quando, di fronte alle richieste di Gesualdo (che ha perso la fede di credito nel naufragio), non esito a dire che “furono cinici”, fino al punto di mettere in dubbio la stessa operazione eseguita da Gesualdo, e a farsi scappare la parola: ladri. Del Banco, e dei banchieri, mi occupo ancora più tardi, quando, parlando della lite promossa da Gesualdo e del giureconsulto del Banco, che “aveva alla Corte più aderenze dell’Infanta”, mi faccio scappare: “si sa qual è, qual era il potere dei banchi nel seicento”, potere evidentemente che esiste tuttora. Del Banco, e dei banchieri, parlo ancora nella seconda parte e nella quarta.
Ora, io non ho nulla contro i Banchi e i banchieri, dei quali mi sono sempre fidato. Ce l’ho contro il sistema, ce l’ho contro le distorsioni del sistema bancario, che poi sono le stesse del sistema di potere. Vedete, e qui mi rivolgo ai più giovani, il Banco è nato, quando è nato, per raccogliere risparmio e investirlo a fini produttivi. Oggi non è così. Il Banco, qualsiasi Banco raccoglie risparmio e lo destina a fini speculativi: acquista cioè, coi soldi del risparmiatore, azioni, obbligazioni, titoli di Stato più o meno garantiti. Fino a che il titolo va, tutto bene. Se il titolo non va, il Banco tracolla, e coinvolge nel tracollo il risparmiatore. Il caso più noto è quello che si è verificato qualche anno fa negli Stati Uniti, e ha prodotto il tracollo di un colosso bancario, il Lehman Brothers, coinvolgendo nel tracollo tanti risparmiatori non solo degli Stati Uniti. Ma casi eclatanti si sono verificati anche da noi in tempi più vicini: parlo dello scandalo della Banca Etruria che ha coinvolto tanti piccoli risparmiatori che lì avevano investito i risparmi di una vita. Ecco perché sono così ostile ai Banchi, ai banchieri e al sistema bancario, che a torto o a ragione (più a ragione) considero espressione del potere, del potere nelle sue forme deteriori, e nei casi più gravi di quel cinismo che, al solito, travolge i poveri cristi.
Vengo qui all’ultimo profilo. La miriade di leggi, la miriade di competenze, la miriade di cavilli che si insinuano nel processo, e fanno della stessa giustizia un affare solo per i ricchi. Non c’è giustizia per i poveri cristi. Questa è l’affermazione che chiude la prima parte. E quella che chiude anche la quarta. Perché il fenomeno non è solo d’oggi. Non a caso ho scritto, riportando le parole di Pietro Colletta, delle miriadi di leggi, ordinanze, decreti, usi, costumi, che costituivano il corpo normativo prima di Napoleone nel regno di Napoli. Oggi le leggi pare che siano centocinquantamila. Dico: pare, perché nessuno sa con esattezza quante siano. In ogni caso, tante, e fanno dell’onniscienza del giudice una chimera. Si potrebbe ripetere oggi, parafrasando il Colletta, che ogni lite, comunque assurda, trovi sostegno in qualche norma, e che la maggior fortuna degli avvocati risieda nelle astutezze legali, che aprono la strada alle soluzioni più inique, e fanno della giustizia una giustizia per ricchi. Si potrebbe ripetere oggi, citando sempre il Colletta, che da questa congerie di norme discende la lunghezza dei giudizi, lunghezza abnorme che sembra fatta apposta per i furbi, i corrotti, i disonesti.
Di qui il pessimismo di fondo che percorre il mio libro. Che nasce dalle cose, più che da un fatto congenito. E giustifica (vorrebbe giustificare) anche gli eventi disastro che fanno da cornice alle quattro parti del libro. La peste del 1656, la carestia del 1764, il colera del 1884, il terremoto del 1980. Eventi disastro che sono sempre stati motivo di arricchimento per i furbi, i corrotti, i disonesti. Lo dico espressamente nella terza parte, quando scrivo che le guerre, le pestilenze, le carestie portano ricchezza ad alcuni, miseria ad altri. Lo ribadisco nella quarta, quando parlo del terremoto del 1980, e della scandalosa estensione delle aree terremotate ad aree che col terremoto non avevano niente a che fare. Non c’entrava nelle vicende narrate, ma avrei potuto aggiungere che, in tempi più recenti, in occasione del terremoto d’Abruzzo del 2009, e col sisma ancora in atto, alcuni imprenditori, io li chiamerei sciacalli, sghignazzavano al telefono e ridevano al solo pensiero degli affari che il disastro gli avrebbe procurato.
Ho detto prima, e mi avvio alla fine, che il mio pessimismo nasce dalle cose. Ma non è detto che le cose non debbano, non possano cambiare. E chi può cambiarle se non i giovani. Vedete, nonostante il mio pessimismo di fondo, io ho fiducia nei giovani. Ammiro nei giovani lo spirito di solidarietà, il lavoro di gruppo, inesistente ai miei tempi, il volontariato, l’attenzione per i più deboli. Ammiro nei giovani la curiosità che non è fine a se stessa, ma un modo per capire, conoscere, decidere. Ma proprio per questo mi permetto invitare i giovani allo studio della storia, quella di ieri e quella di oggi, perché non si può capire, conoscere la storia di oggi senza conoscere  la storia del passato. Vedete, e qui mi rivolgo ai più giovani, la quarta parte del libro, sulla quale non mi stancherò mai di insistere, è la storia di una famiglia, ma è anche la vostra storia, la storia dei vostri padri, dei vostri nonni. E’ la storia di una famiglia contadina, una famiglia come ne ho conosciuto tante la prima volta che sono venuto nella vostra terra, che è diventata anche la mia. Della famiglia contadina c’è tutto, o quasi tutto: l’amore per la terra, l’amore per la natura, l’amore per gli animali, l’amore per la famiglia, l’amore e basta.
Ma accanto a questo, nel mio libro c’è anche il tentativo, non so quanto riuscito, di ricostruire un passaggio epocale, il momento di transizione dal mondo contadino a un mondo diverso, coi suoi pregi e i suoi difetti, ma diverso da quel mondo fisso e statico che era stato per secoli il mondo contadino. In quella parte, insomma, io volevo descrivere la volontà di cambiamento, che è stata dei vostri padri e dei vostri nonni, e riprodurre le difficoltà, gli ostacoli, gli intralci, che hanno incontrato i vostri padri e i vostri nonni, per emergere, riscattarsi, e uscire fuori da un mondo che era pur sempre un mondo di sottoposti (Iole Chiagano più brutalmente direbbe: servi).
Vedete, e qui mi rivolgo sempre ai più giovani, non è stato semplice, non è stato facile per i vostri padri, per i vostri nonni, emergere dal mondo contadino, uscire fuori da una società di sottoposti. Non è stato facile fare l’avvocato, o il medico, o l’ingegnere per chi veniva da una famiglia contadina. Non è stato facile conquistare in concreto l’uguaglianza proclamata dall’art. 2 della Carta. Nella quarta parte del libro, io ho tentato una ricostruzione di questa parte della vostra storia, della volontà di cambiamento che è stata propria delle due generazioni che vi hanno preceduto, della volontà di superamento dello stesso concetto di classe.  
Figura emblematica di questa volontà di cambiamento è Antonino; accanto a lui un mondo di eroi che io esiterei a definire minori: il padre, la madre, l’Amalia Formigli, il manipolo di volenterosi che la segue, dal maestro al geometra allo studente al commesso di farmacia al figlio di famiglia. Ma è Antonino, infermiere “ferrista” all’Ospedale di Tronte, il nome è inventato, che rompe definitivamente lo schema che lega il popolo di Spinazze, anche questo nome è inventato, al mondo contadino. Infermiere “ferrista”. Si veda come la sua scelta venga accolta nel piccolo centro nel quale la storia è collocata, dove non sanno neppure il ferrista che è. Infermiere “ferrista”. “Già quel nome suscitava rispetto e ammirazione, evocando immagini infantili e sensazioni inconsce, come, per fare un esempio, il domatore di elefanti al circo, o il direttore di giostre, o il casellante delle ferrovie”. E poi “avere un infermiere ferrista a Tronte era un titolo, una conoscenza preziosa, una corsia preferenziale”, ed era infine “un motivo di orgoglio, e non costava niente". Ma si veda pure come gli diventi ostile il mondo che lo circonda. A partire dall’opera di denigrazione sottile e perversa che gli oppongono i ricchi, i Vanacore di primo livello, che fanno di lui un infermiere “sedicente ferrista”, lo accusano di esercitare “abusivamente l’arte medica”, lo considerano un “pezzente” che “vende i suoi servizi per tre denari”. Per finire all’invidia, alle gelosie, alle mille beghe opposte dai Vanacore di secondo livello, ma anche da quelli di primo, per impedirgli un progetto di risanamento che, purtroppo per lui, rimane incompiuto.
Perché incompiuto? Solo perché Antonino muore di morte prematura? No, c’è un altro motivo. Consiste in ciò: che il processo di riscatto, sotteso al progetto di risanamento di Antonino, è tutt’altro che compiuto. Che lo stesso principio di eguaglianza è tutt’altro che acquisito. Che distinzioni di censo, di sesso, di razza, formalmente superate, sono ancora vive, e tanto più saranno vive quanto più si allargherà la forbice tra poveri e ricchi di cui ho parlato prima. Non faccio esempi. Sono sotto gli occhi di tutti. Le distinzioni di censo che nascono dal divario crescente tra poveri e ricchi e consentono al ricco di mandare il figlio a Oxford o a Cambridge, al povero di mandarlo sì e no nell’università di periferia. Le distinzioni di sesso, che spesso riducono la donna a oggetto, il corpo della donna a merce, anche e solo in affitto. Le distinzioni di razza che fanno di alcuni gli eletti, degli altri poco più che bestie, e questo solo per il colore della pelle. Vedete, e mi rivolgo sempre ai più giovani, ho già detto che sulla quarta parte del libro non mi stancherò mai di insistere, forse perché è la più sentita, forse perché gli Ognissanti e i Vanacore sono sempre esistiti, forse perché la storia del progetto edilizio, del progetto di risanamento della casa sul poggio, non è solo la storia dei mille paradossi di una burocrazia corrotta e ottusa, e qui ritorna l’aspetto di denuncia che tanto ha colpito Giovanni di Luccia, ma è anche, almeno io volevo che fosse, la storia del riscatto, della trasformazione in atto di una società di sottoposti, in una società di uguali, secondo il dettato dell’art. 2 della Carta. Il progetto edilizio, insomma, come metafora del processo di cambiamento che è stato dei vostri padri, dei vostri nonni. Un processo che a me sembra tutt’altro che compiuto. Un processo che va attuato giorno per giorno, e va difeso anche là dove sembri essere compiuto. Per questo il progetto di Antonino rimane incompiuto.  Sta a voi giovani portarlo a compimento.  Non è un compito facile, non è un compito facile in tempi di crisi. Ma i vostri nonni, i vostri padri ce l’hanno fatta. Ce la farete anche voi. 

Michele Di Lieto
   

  

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